«Avanguardie della storia» nasce da un piccolo gruppo di lavoratori del settore «cultura e istruzione». Come si intuisce facilmente dal nostro blog e dalla nostra pagina Facebook ci siamo schierati senza se e senza ma contro il DDL scuola del governo Renzi, abbiamo anche condiviso le critiche al «progetto trilinguismo» voluto dalla giunta provinciale in Trentino. Ciascuno di noi ha partecipato individualmente, con sensibilità e modalità diverse, alle mobilitazioni e alle proteste che in queste ultime settimane hanno attraversato le piazze e le scuole trentine.
Proprio per questo riteniamo di dover spiegare il nostro punto di vista su quanto sta accadendo a tutti i docenti, i genitori, gli studenti e i cittadini che condividono questa lotta sacrosanta. Dopo lo straordinario sciopero del 5 maggio e il coraggioso sabotaggio di massa dei test Invalsi l’impressione è quella di un calo di forza delle proteste, come se una cappa depressiva stesse tornando ad immobilizzarci; temiamo vi sia soprattutto una dispersione di energie ed uno sbaglio di prospettiva strategica da parte di molti che partecipano al movimento con grande forza e dedizione. Crediamo occorra un «di più» di riflessione e approfondimento che ci pare sia fin ora mancato al movimento.
Vorremmo proporre tre piccole riflessioni , ricordando che l’occasione per una discussione pubblica aperta a docenti, studenti, genitori, ATA, cittadini attivi, ecc sarà possibile il giorno 27 Maggio a Trento, alle 15.00.
1) Bisogna credere in sé stessi, non nelle promesse elettorali. Temiamo che in troppi stiano riponendo troppe speranze nella sconfitta del PD alle regionali; temiamo che in troppi perdano troppo tempo nel fare “il tifo” per qualche discorso parlamentare (di gente la cui amicizia nei confronti della scuola è tutta da dimostrare).
Temiamo si stia compiendo il solito errore che ha segnato gli ultimi 20 anni (e forse più …) la storia di questo paese: cercare di trasportare sul piano meramente elettoralistico e parlamentare un malessere sociale senza trasformarlo in forza reale presente nella società, in strutture organizzate in grado di intervenire sui «processi molecolari» del vivere quotidiano in cui si riflette lo scontro tra noi e il potere.
Benché il voto possa spesso essere uno dei tanti strumenti utili, è bene ricordare che i risultati delle urne non cambiano di per sé la realtà sociale, piuttosto la fotografano. Sono i cambiamenti sul piano dei rapporti sociali a trovarsi riflessi nel voto.
Il campo di battaglia è e resterà la realtà concreta delle scuole, la realtà concreta dei rapporti che saprete costruire tra colleghi, ma anche tra insegnanti e altre categorie della scuola e del settore cultura (e non solo), tra insegnanti e genitori, tra insegnanti e studenti. Non si può delegare la lotta per la dignità.
2) Noi combattiamo per il cambiamento, non per la conservazione. Forse dopo qualche settimana di protesta da parte di un movimento guidato da una categoria di laureati e specializzati si potrebbe anche andare oltre a rivendicazioni che riguardano l’ «assunzioni per tutti i precari» e il «vogliamo salari dignitosi». Per carità, tutte cose giustissime, su cui non bisogna mollare di un millimetro. Il problema è che però stiamo difendendo la scuola, non solo i docenti e quindi bisogna partorire una proposta complessiva di riforma che affronti i problemi della scuola nel loro complesso.
La scuola così com’è non funziona, o funziona male non nascondiamocelo. È il momento di sognare e di progettare il futuro, non di chiudersi a riccio. Solo chi sa immaginare il domani può vincere. Non possiamo difendere l’esistente, né continuare a farci additare come conservatori e fannuloni. La scuola italiana va cambiata. O la cambiamo noi dal basso e in meglio o lo faranno dall’alto e in peggio.
3) Good morning Vietnam! Se il DDL scuola passerà così com’è, che facciamo? Ce ne torniamo depressi a farci i fatti nostri?
Ricordate che la scuola è nostra; sono i docenti, gli studenti, il personale ATA e i collaboratori alla didattica (ad esempio i lavoratori dei musei e delle biblioteche) a far funzionare l’istruzione, se si organizzano in modo capillare possono diventare una forza che nessuno può ignorare. Non pensate solo alle piazze e al voto, pensate alla vita quotidiana. Se si è solidali nella vita di tutti i giorni, se si è capaci di decidere insieme cosa fare o cosa non fare, di presentare insieme un progetto o di opporsi insieme alle scelte di un dirigente allora possono fare tutte le leggi che vogliono, con noi dovranno sempre fare i conti.
Se lo vogliamo possiamo trasformare la scuola in un Vietnam. In un luogo in cuoi il potere «dall’alto» è impantanato, incapace di imporre la sua volontà e costretto a mediare con un potere «dal basso» oppure a logorasi nello scontro con esso.
Crediamo sia necessario organizzarsi, trasformare la struttura della protesta di ora in una rete permanente di lotta. Si parte dal basso, nella propria scuola, con i colleghi che ci stanno e si fa un consiglio dei docenti in lotta. Non si pensa solo alla protesta, ci si scambiano pratiche didattiche, ci si aiuta, ci si spalleggia nei consigli, sui progetti. Insomma ci si dà una disciplina egualitaria e volontaria, ma proprio per questo infrangibile. Insieme di discute e poi insieme si lavora e si lotta. Così non si è più gregge, si diventa branco. E poi ci si collega con gli studenti, con i genitori, con altre categorie. Si diventa il nodo di una rete più vasta che si struttura sino a lanciare campagne nazionali. Non solo di protesta, ma anche elaborando proposte di cambiamento.
Certo bisogna organizzarsi, creare dei consigli dei lavoratori e degli studenti che lavorino sul serio a formulare proposte e riflessioni concrete per la scuola di domani (ad esempio questa, questa o questa). E poi bisogna iniziare a metterle in pratica, a scuola ci siamo noi e non abbiamo bisogno del permesso di nessuno per iniziare a cambiarla, almeno in piccola parte.
Tanto per cominciare occorre farla finita con l’individualismo che porta molti docenti a lavorare per conto proprio, come se fossero l’unico insegnate sul pianeta terra. Le buone pratiche didattiche vanno condivise, quelle sbagliate o superate accantonate. Questo non lo si può e non lo si deve fare per ordine dall’alto ma per una disciplina liberamente accettata che sorga da un rapporto paritario tra colleghi e compagni di lotta.E non prendiamoci in giro, come cantava Venditti, c’è anche
«Il professore che ti legge sempre la stessa storia
nello stesso modo, sullo stesso libro
con le stesse parole da quarant’anni di onesta professione»
Questo tipo di docente purtroppo esiste sul serio. Certo non serve colpevolizzarlo. In fondo lo stato lo seppellisce sotto cumuli di scartoffie burocratiche, gli versa un salario penoso o lo ha reso precario a vita, lo ha lasciato solo con classi sempre più ignoranti e indisciplinate, con genitori sempre più irrispettosi e cafoni. Ma lamentarsi e continuare il solito tran tran non è la soluzione. Bisogna uscire dal proprio isolamento che porta molti insegnanti all’apatia e alla vera e propria depressione. Non basta essere solidali in piazza, bisogna esserlo tutti i giorni a scuola. Bisogna lavorare davvero insieme, non solo nello stesso edificio. Occorre sostenersi, scambiarsi pratiche, strumenti e conoscenze. E occorre anche pretendere che tutti i colleghi agiscano secondo un livello minimo di decenza, dando ai ragazzi quella dedizione minima che spetta loro di diritto.Come sempre è l’esempio individuale la base di ogni cambiamento.
Inoltre perché non creare cooperative che si occupino di produrre materiali didattici e di tenere corsi di aggiornamento? Tanti docenti precari, tanti operatori museali «a chiamata» potrebbero trovarvi un’integrazione di reddito. È criminale chiamare a tenere corsi di aggiornamento sempre i soliti “noti” divulgatori ben pagati e magari in pensione, coccolati dalle amministrazioni pubbliche, mentre tanti giovani ben più preparati e capaci, che metodologie didattiche innovative le hanno sperimentate davvero, rischiano di non lavorare.
Iniziamo a concepirci come una collettività che sia in grado di coinvolgere quando occorre i genitori, gli studenti o altri lavoratori, come i bibliotecari o gli operatori museali. A proposito cari docenti, quanti di voi si sono mai preoccupati del lavoro gratuito o super precarizzato nel settore culturale? Vi siete mai rifiutate di entrare in un museo o in una galleria d’arte in cui il personale di guida e di custodia è composto da stagisti o da «volontari» non pagati come quelli di Expo? Centinaia di migliaia di giovani in questo paese, che come noi lavorano nel campo della produzione culturale sono precari e ridotti a ricatti lavorativi.
Pensiamo inoltre ai bibliotecari, al personale delle librerie o dell’editoria in generale, sottoposto a regimi di precarietà e sfruttamento sempre più pesanti. Per interesse e dovere professionale gli insegnanti dovrebbero essere i principali utenti di musei, biblioteche e librerie, non vi siete mai chiesti come vive chi li fa funzionare?
VOLETE UN MODELLO PER L’AZIONE?
Lo ripetiamo si parte sempre dall’individuo: leggetevi «Il potere dei senza potere» di Vaclav Havel e prendete esempio dal fruttivendolo che nella Cecoslovacchia degli anni ’70 si rifiuta di mettere in vetrina gli slogan del regime e diventa un dissidente, cioè un uomo che rifiuta di avvallare le menzogne del potere.
Quando i dissidenti sono più d’uno allora si può cominciare ad organizzarsi. I docenti di storia si vadano a ripassare il funzionamento delle leghe bracciantilinella val padana di inizio ‘900 e lo spieghino ai colleghi (basta anche leggersi il romanzo «Il sol dell’Avvenire» di Valerio Evangelisti). Ci sono arrivati dei braccianti semi analfabeti ad organizzarsi e a conquistarsi dei diritti, possibile non ce la faccia gente che ha lauree e specializzazioni a bizzeffe?
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