Riceviamo, sottoscriviamo e condividiamo la lettera che nei giorni scorsi uno dei nostri ha inviato all'Adige e che l'Adige ha serenamente ignorato.
Che confusione in classe!
Fa sorridere l’articolo di Nicole Vuillermin apparso su “l’Adige” martedì 21 febbraio: «Rossi corregge il piano trilinguismo». Ma il sorriso è amaro, perché la leggerezza di certe politiche scolastiche prelude solamente al degrado culturale, il ché non è affatto divertente. Non per chi, come lo scrivente, lavora nella scuola trentina da quasi due decenni, cercando di dare il meglio. Quando due anni fa Ugo Rossi venne in quel di Borgo Valsugana a presentare l’allora nascente “trilinguismo”, la sala del Comprensorio era gremita di insegnanti perplessi. Alla presentazione seguirono i primi interventi che esprimevano preoccupazione a fronte di una manovra palesemente frettolosa ed eccessiva, ai danni di un sistema scolastico già in difficoltà per varie ragioni. Indignato dalla sufficienza con la quale il Governatore declinava gli inviti alla moderazione e commentava le critiche che venivano mosse al suo “progetto”, intervenni esordendo con una citazione di Albert Einstein. Feci notare che il parere dell’insegnante, dell’addetto ai lavori, va tenuto nella massima considerazione: «è lui infatti che sa meglio e sente più nettamente dov’è che la scarpa fa male», perché è lui - e lui solo - che la calza in ogni giorno lavorativo e in ogni ora di lezione. Non diversamente dagli altri, anche il mio intervento venne prontamente squalificato dalla presunzione e dall’arroganza tipiche di chi parla senza saper ascoltare. La tensione era palpabile, e la serata si concluse nei peggiore dei modi, con il trio Rossi-Bottamedi-Ferrario che se ne andava via furente. Nelle settimane a venire seguirono presentazioni in altre sedi, ma con lo stesso esito. Ciononostante, dopo aver raccolto il dissenso ai quattro angoli del Trentino, il “trilinguismo” entrava prepotentemente nelle nostre scuole di ogni ordine e grado.
La dinamica è la stessa che ha visto imporsi la «buona scuola» di Matteo Renzi, prima che l’esito referendario bocciasse il decisionismo spiccio in seno al quale è stata concepita. L’ampio movimento di contestazione che ha accompagnato il varo della «buona scuola», movimento che ha avuto il suo culmine nell’adesione storica allo sciopero nazionale del 12 maggio 2014, è stato tranquillamente ignorato, con il risultato che oggi l’alternanza scuola-lavoro è entrata anche nei licei, ed è tra le principali materie per ore di “insegnamento” negli istituti tecnici (la seconda dopo l’italiano). Lo stesso Renzi, a commento del “NO” degli italiani, ha ammesso di aver esagerato con la «buona scuola». Ma la Giunta Rossi l’aveva già recepita da un pezzo, questa volta con una solerzia davvero sorprendente.
Nello stesso modo vengono allegramente ignorati gli appelli alla prudenza rivolti da alcuni insegnanti a certi Dirigenti scolastici i quali, sull’onda della moda del momento, riempiono le aule di schermi, ignorando il fatto - dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio - che gli schermi deprimono l’apprendimento. La sovra-esposizione a schermi cui gli studenti sono sottoposti in ambiente extrascolastico - e che l’informatizzazione intensiva della scuola sta promuovendo a iper-esposizione - sviluppa l’intelligenza simultanea - una forma primitiva e superficiale di intelligenza, tipica della cosiddetta “mente multitasking” - a discapito di quella sequenziale - una forma più evoluta, che ha la dimensione della profondità, e che si sviluppa con la lettura e si utilizza nell’analisi logica, nel ragionamento e nel calcolo. Una forma di intelligenza che richiede concentrazione e risulta fortemente inibita da stimoli superflui, come quelli dispensati a piene mani dalle nuove tecnologie. Per questo gli schermi in generale, e in particolare quelli per uso didattico, sono «armi di distrazione di massa», come sostiene Mario Tozzi, perché con Sherry Turkle occorre riconoscere che «gli studi dimostrano che uno schermo acceso è in grado di deteriorare il rendimento di chiunque si trovi nei paraggi, tanto dei proprietari del dispositivo quanto di tutti gli altri seduti intorno».
Questa inquietante metamorfosi della scuola trentina - l’informatizzazione selvaggia, l’entrata a gamba tesa del “trilinguismo-CLIL”, l’esasperazione dei rapporti tra la scuola e le imprese - venne inaugurata dal Governo Berlusconi nei primissimi anni del nuovo millennio - nella persona dell’allora Ministro all’Istruzione Letizia Moratti - con la famigerata «scuola delle 3 I» (Informatica, Inglese, Impresa). Non poteva stupire ieri che il re delle televisioni e la regina del petrolio preferissero la professionalizzazione all’acculturazione, la produzione alla conoscenza, il profitto al sapere. Né può stupire oggi se Renzi, Rossi e certi Dirigenti ne condividono la “visione”, se è vero - come sostiene Massimo Recalcati - che «l’economicismo contemporaneo non ha solo inebetito la politica subordinandola agli interessi dei grandi capitali finanziari, ma ha anche irretito la pedagogia, che sembra sponsorizzare l’efficienza, la prestazione, l’acquisizione delle competenze come indici subordinati al criterio acefalo della produttività».
Non è necessario aspettare che si concludano le prime valutazioni sul trilinguismo per rimediare a certi errori tanto grossolani. E non tanto perché basta un filo di trucco per imbellettare la miseria culturale, quanto perché, prima ancora di affrontare le difficoltà contingenti di una manovra, occorre rendersi conto delle sue falle strutturali. Qualche giorno fa, mentre facevo lezione, una ragazza di seconda superiore ha alzato la mano per chiedere spiegazioni. La migliore in chimica di quella classe, che ha frequentato la prima in un’altra scuola. «Sono cose del primo anno, non le hai fatte con l’insegnante dell’anno scorso?» ho chiesto. «Si, ma le abbiamo fatte in CLIL, e non le ho capite» è stata la sua risposta. Aveva la nozione, ma mancava completamente del concetto. «Se non le ha capite lei, impegnata e intelligente com’è, che cos’hanno capito i suoi compagni dello scorso anno?» mi sono chiesto mentre mi accingevo a fare un breve ripasso sull’argomento. Questi sono dati oggettivi, che chi lavora sul campo rileva quotidianamente. Quelle dei promotori del CLIL, invece, sono mere congetture, aspettative ingenue, facili entusiasmi e sensazionalismi che si infrangono miseramente contro la prova dei fatti. Rispetto a chi si aggira nel Palazzo, chi mette i piedi nella scuola «sa meglio e sente più nettamente dov’è che la scarpa fa male», ma non viene ascoltato. Di più: viene additato come un patetico retrogrado, un figlio di fiori ormai appassiti, un comodo conservatore che non vuole mettersi in gioco, un anticonformista fine a sé stesso.
Ma la scienza è prima di tutto chiarezza, precisione e rigore nel ragionamento e nel linguaggio. Come si può pensare che certi concetti astratti possano essere trasmessi in lingua straniera quando è difficile sia esprimerli che recepirli in madrelingua? Sono concetti che gli studenti possono assimilare solo se l’insegnante li sa proporre in forma analogica, a volte addirittura in veste metaforica, e ciò richiede una padronanza linguistica che eccede in larga misura sia quella accertata dalle certificazioni richieste agli insegnanti CLIL che quella disponibile a degli adolescenti. Il fatto che molti corsi universitari vengano oggi tenuti in lingua straniera non è un buon motivo per imporre precocemente questa pratica, almeno non per chi si rende conto che un quindicenne ha meno mezzi di un ventenne. Proprio perché le lingue straniere sono estremamente importanti, sarebbe bene che nelle scuole superiori venissero insegnate da chi le conosce approfonditamente e correttamente, non da chi se ne è impossessato in fretta e furia con i corsi accelerati più disparati. Solo così i diplomati possano accedere all’università o al mondo del lavoro con una base linguistica davvero solida. Il CLIL impartisce essenzialmente mediocrità e superficialità, sia nella lingua utilizzata che nella materia trattata. Ma questo è esattamente ciò che la politica contemporanea auspica, perché la media è diventata la norma, e la mediocrità è stata eletta a modello, come sostiene Alain Deneault nel suo libro “Mediocrazia”. Perché il mediocre è docile e, soprattutto, vota i suoi simili.
La «scuola delle 3 I» è quanto mai attuale. È la scuola della confusione, perché confonde la superficie con la profondità, la nozione con il concetto, l’addestramento professionale con la cultura propriamente detta, che è disinteressata. Una torre di Babele eretta dall’incompetenza di chi sostituisce i libri di testo con i tablet, dall’inesperienza di chi crede che un adolescente possa avvicinarsi alle scienze in una lingua che non è la sua, dalla superficialità di chi equivoca un’azienda con un’istituzione culturale. Sarebbe bene che i pochi anni di scuola gli studenti li passassero a scuola, possibilmente con docenti che insegnano quello che sanno insegnare, magari senza troppo baloccarsi con gli schermi. Gli adolescenti, per dirla con Marco Lodoli, sono «il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi verso il futuro». Hanno tutta la vita per misurarsi con il grigiore dell’incompetenza, con le solitudini e le relazioni virtuali offerte dalle nuove tecnologie, con il sapere monologico finalizzato e i freddi interessi economici delle aziende. Lasciamo che i giovani vivano la loro età, la giovinezza. È il miglior modo per prepararli alla maturità.
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